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Molte sono le fotografie che vogliono rappresentare situazioni di tipo onirico e tutte seguono cliché piuttosto ripetitivi.

In queste fotografie sembra che il mosso e lo sfuocato debbano essere la sintassi obbligatoria, ma è così?

La fotografia che si rifà all’esperienza onirica trova le sue radici nel surrealismo, movimento artistico sviluppatosi nei primi del novecento con André Breton, neuropsichiatra con simpatie freudiane, il quale, riguardo al surrealismo, affermava:

 

“…Automatismo psichico puro che riflette il vero funzionamento del pensiero, in assenza di qualsiasi motivazione o preoccupazione morale o estetica.”

 

Caposaldo del credo surrealista era il “l’automatismo psichico” come la libera associazione di idee, senza censure, come si verifica nel sogno durante la fase REM del sonno.

Se andiamo a esaminare le fotografie dei grandi fotografi surrealisti come Rodney Smith[1]o dei contemporanei come Misha Gordin[2], ci accorgiamo immediatamente che la fotografia surrealista e onirica, nulla ha a che spartire con effetti riconducibili al mosso o allo sfuocato.

Le loro fotografie esprimono situazioni oniriche ben costruite in laboratorio, con i soggetti perfettamente a fuoco e senza alcun mosso.

Quello che le rende uniche e vera espressione artistica è il contenuto concettuale che sta dentro e dietro di esse.

Nulla è lasciato al caso.

Sfortunatamente oggi ci vengono propinate fotografie spacciate come oniriche o surreali o concettuali, tutte rivolte a presentare in modi diversi, ma unificati sempre gli stessi ingredienti semantici: persona intera o arti in atteggiamenti stereotipati o ancora oggetti tra i più disparati, tutti ripresi con la stessa tecnica di illuminazione e la stessa sintassi fotografica.

Quello che ancor più mi angustia è che spesso gli autori continuano a produrre ossessivamente la stessa fotografia con ingredienti diversi, divenendo così degli stucchevoli e noiosi deja vu.

Quindi, amici dell’onirico, provate ad andare oltre il banale, create nuovi linguaggi, nuovi concetti, e nuove sintassi, così da trasformare il banale in “arte”.

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