SARAH MOON E LA MORTE NEGLI OCCHI
Sarah Moon è una delle più importanti fotografe di moda vivente.
Sarah Moon, tuttavia, è un nome d’arte, il suo vero nome è Marielle Warin.
Nasce a Vernon, in Francia nel 1941 da una famiglia ebrea, costretta a lasciare il paese per il Regno Unito per sfuggire agli orrori della persecuzione nazista.
Negli anni sessanta rientra in Francia e si stabilisce a Parigi dove lavora come modella, ma dal 1968 decide di passare dietro l’obiettivo con lo pseudonimo di Sarah Moon.
Rimanendo nel settore della moda, collabora con le maggiori riviste di settore e nelle campagne pubblicitarie di grandi firme come Cacharel, Dior, Chanel, Comme des Garçons e Issey Miyake. È stata la prima donna a realizzare un calendario Pirelli nel 1972.
Accanto alla fotografia di moda, che le conferisce fama e onori, Sarah coltiva un suo personale modo di fotografare, basato principalmente sull’utilizzo delle pellicole Polaroid.
È proprio a queste fotografie che rivolgo la mia attenzione in quest’articolo.
Queste due immagini rappresentano un po’ la summa della tipologia iconica della Moon.
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Innanzitutto nelle sue immagini, non compaiono mai uomini: solo donne. Questo ha portato molti critici, in particolare visionando il suo Calendario Pirelli del 1972, a ritenere verosimile un suo orientamento omosessuale. Tuttavia l’autrice non si è mai espressa in proposito e quindi resta un’illazione che ha le sue basi su una lettura delle sue immagini, che esprimono ossessivamente una femminilità senza tempo.
Le sue fotografie sono antitetiche, da un punto di vista estetico, a quelle così perfette e leggibili del suo lavoro quotidiano nel campo della moda. Qui la nostra autrice crea delle immagini scure, sfuocate, mosse e deturpate anche fisicamente, ella in sostanza pone alla base della sua creatività un’estetica antitetica al suo quotidiano, quasi a volersi liberare di quei canoni che avverte come costrittivi e limitanti, come se l’eleganza della foto da rotocalco debba essere rabbiosamente distrutta in un gesto creativo e in un grido di libertà, così come sembrerebbe esprimere in queste sue parole:
“[…]Et vive la liberté!… vive la liberté, je suivais son rythme, avec ou sans musique, et pour le plaisir, le plaisir du regard avant même celui de la photographie, l’un pouvait vivre sans l’autre et de toute façon j’ai toujours su que je n’avais rien vu si je n’avais pas vu au- delà des apparences. J’ai toujours su qu’il me fallait fermer les yeux avant de les ouvrir, et que mon oeil en choisissant n’était plus tout à fait le mien, qu’il n’avait pas son âge, qu’il voyait pour la première fois, qu’il découvrait ce que moi je reconnaissais en mon âme et inconscience.”
“[…]Evviva la libertà!… viva la libertà, ho seguito il suo ritmo, con o senza musica, e per il piacere, il piacere di guardare davanti prima ancora di fotografare, l’uno potrebbe vivere senza l’altro, e comunque ho sempre saputo che non avrei visto nulla se non avessi guardato oltre le apparenze. Ho sempre saputo che dovevo chiudere gli occhi prima di aprirli, e che il mio occhio scegliendo non era più il mio, che non aveva età, che vedeva per la prima volta, che scopriva ciò che io riconoscevo nella mia anima e incoscienza.”
Quindi questo suo uscire dai canoni le è funzionale per produrre arte, quella vera, che appoggia le basi su una solida genialità.
La donna di Sarah si libera dai vincoli del quotidiano e diviene una donna senza tempo, che possiede i tratti e le forme di tutte le età. Una donna assolutamente onirica, che si nasconde e che è da ricercare con attenzione osservando teleologicamente la sua fotografia; la s’intravede appena affogata nel seppiato o nelle cromie cupe, diviene un’ombra sfuggente, accompagnata da un mosso astuto o da una ferita della pellicola inferta con maestria.
La donna è quindi un’idealizzazione, una proiezione onirica di un ideale elaborato dalla sua mente, una donna metafisica e verosimilmente asessuata, non omosessuale, un suo costante autoritratto interiore attraverso il quale esprimere le angosce, i turbamenti e le ambiguità di un IO affannato alla perenne ricerca di un’dentità e di un equilibrio.
E così veniamo alla lettura dell’immagine che ho scelto:
Nella fotografia vediamo una bambina, ripresa secondo il piano americano dei ¾, vestita con un semplice vestitino che potrebbe essere tanto attuale quanto di moda tanti anni fa, le braccia aderenti al corpo, ma con le manine contratte, specialmente la destra, in una posizione, anche del corpo, tutto sommato “forzata” e innaturale.
Questo atteggiamento innanzitutto ci rende l’idea di una tensione palpabile, come se l’autrice volesse trasmettercela con cruda evidenza.
Come se la bimba fosse l’espressione di un disagio interiore dell’autrice e che intendesse comunicarcelo come il messaggio di aiuto di un naufrago che lo chiude in una bottiglia: lei nella sua fotografia, riquadrata da una cornice che delimita lo spazio a voler cancellare ogni riferimento al fuori campo per impedirci di poterla collocare in un luogo.
L’abitino, poi, non solo non ci aiuta a collocarla in un tempo preciso, ma ce la rende ancora più atemporale, Sarah ci propone un contenuto senza tempo e senza luogo, così come sono i sogni.
Il volto della bimba appare sfigurato da una vistosa abrasione del fotogramma, ma è proprio così?
Intanto i capelli sono ridisegnati sopra la lacerazione dell’emulsione, a rimarcare che non sono quelli l’oggetto del gesto iconoclastico.
Gli occhi sono invece ferocemente aggrediti, cancellati e sostituiti da due segni grossolani, sommariamente circolari, neri, che richiamano le orbite cave di un cranio.
In questa fotografia il sogno, o incubo, dell’autrice si materializza in una serie di simboli che ci trasmettono l’angoscia, il tormento e la paura intorno all’essere bambina in un tempo, lo ricordo, in cui ella visse il trauma dell’odio razziale verso gli ebrei.
L’odore della morte probabilmente l’ha solo sfiorata, ma in questa fotografia emerge con particolare violenza l’incubo che deve avere vissuto.
Il suo è un vissuto senza tempo e luogo, un sogno dal quale le è difficile destarsi, ma che riesce, a mio parere, a trasmetterci e, spero a superarlo, proiettandolo fuori di sé, in un’immagine così complessa ed articolata, tutto il suo tormento.