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aaaaaaaaaaaaaaaL’ISPIRAZIONE, LO SCATTO, L’INTERPRETAZIONE
di Federica Antonella Sala

 

Da sempre e per sempre l’uomo produce e contempla le proprie opere, indaga la natura di queste ultime e la conoscenza che si cela dietro, prima, della creazione stessa, per poi continuare a creare e interrogarsi. Una definizione di arte o una intuizione della sua natura è pena costante: cerchiamo di definire i limiti dell’arte senza conoscere bene né ciò che sta al di qua né ciò che sta al di là del confine che desideriamo tracciare. Ogni sopralluogo deve essere stato svolto prima di capire che il bordo non serve perché ognuno di noi deve voler essere perennemente sull’orlo di sé stesso. Anche se la realtà è vista da tutti, sempre meno la osservano, pochi desiderano oltrepassarla.

È proprio in questo panorama che si inserisce l’arte fotografica che mostra realtà che si lasciano osservare nel tempo e immagini che chiedono di essere varcate. Fotografie che sono finestre che danno sul vero: più a lungo le si osserva e più la notte diventa giorno permettendoci di spegnere la luce e vedere attraverso dopo aver osservato il nostro riflesso come in uno specchio durante l’oscurità.

Con questa premessa ho voluto chiarire il ruolo particolare che la fotografia possiede all’interno del mondo dell’arte. Ogni fotografia è una riflessione sul rapporto che l’uomo intrattiene col reale. Esiste inoltre un legame con il pubblico, una vicinanza senza precedenti. La fotografia meglio di qualunque altro mezzo ricorda al fruitore che siamo immersi nella stessa matrice liquida che è la realtà, che come l’acqua ha la facoltà di esser al tempo stesso contenitore e contenuto.

La fotografia ha dunque un ruolo molto importante nell’evoluzione dell’uomo alla scoperta di sé stesso, motivato anche dal rapporto prossimo fra il sentire dell’artista e la ricezione dello spettatore. Passiamo ora all’osservazione di una questione: tratteremo di una fotografia frutto di un gesto spontaneo e improvviso e del conseguente ruolo del caso nella costruzione del significato di tale opera.

Siamo soliti pensare che l’atteggiamento mentale dell’artista plasmi il prodotto intorno all’idea, che il risultato venga composto per assomigliare o esprimere un concetto o tendere a dar forma ad un’intuizione, che può essere di varia natura. Questa convinzione vede ora una piccola crepa nella propria piana logica, ed è da questa crepa che sbocca terra fertile da seminare. Che cosa succede quando un mezzo di ripresa istantanea permette di registrare la nostra ispirazione nel momento preciso in cui avviene? Senza razionalità, solo istinto. È come se cogliessimo un nostro pensiero e fissassimo l’illuminazione per poi procedere con l’esplorazione. Immaginiamo il caso di un fotografo che viene folgorato da una vista che lo colpisce e accende in lui il lume dell’ispirazione, ma la velocità stessa della realtà non gli permette di lasciar maturare l’idea, di comporre la visione e operare delle scelte attraverso l’impostazione della sua macchina fotografica. Deve rinunciare allo scatto? Al contrario, il fotografo scatterà senza nemmeno avvicinare l’apparecchio all’occhio, cercando di cogliere la rivelazione che lo ha attirato, lasciando concentrata la pulsione di creazione nello stato mentale dell’epifania, e affidando al caso ciò che normalmente è frutto della mediazione dell’elaborazione razionale operata dallo sguardo compositore. Tale esempio si rifà ad una esperienza della fotografa Maria Luisa Lamanna, la quale, guidata dall’attrazione di uno scorcio, ha scattato una fotografia “a caso”[1], che vuole significare che la fotografia è stata realizzata senza puntare, a mirino vano: lo scatto è stato in direzione dell’attenzione, ma senza l’ausilio della vista regolatrice.

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Il risultato ha generato sorpresa e permesso queste riflessioni a proposito dell’inquadratura della pulsione. Alla luce di questo evento è possibile affermare che Il processo creativo è partito dal risultato estetico e ha trovato il suo esito nella scultura della comprensione, nella forgiatura del pensiero. L’ispirazione raccolta ha permesso di rendere esplicito il percorso interiore in un momento successivo, ha svestito l’atto intuitivo stesso e palesato l’anima dell’artista. Si è passati dal lavorare sull’oggetto per dargli la forma delle nostre idee all’avere un oggetto del quale ricostruire il contenuto. L’ispirazione è stata l’atto stesso della creazione. L’opera, la forma, non è più punto d’arrivo, ma punto di partenza, e il suo significato, il contenuto, diventa oggetto di ricerca e risultato ultimo.

La fotografia, soprattutto quella digitale, sembra permettere il mutamento di un paradigma secolare che vedeva il prodotto artistico come conclusione del processo creativo fino a ribaltarlo.

Questo tipo di processo invertito si inserisce fra i germogli che hanno prosperato dalla rottura creata dalle avanguardie novecentesche grazie alle quali l’attenzione è stata spostata dalla forma al contenuto, dall’azione all’intenzione, dalla manifestazione alla funzione, dall’essenza alla sostanza, dall’espressione del desiderio alla natura del bisogno, apparentemente complicando qualunque tentativo di stabilire e definire l’identità e lo statuto ontologico di un’opera d’arte, realmente modificando la natura della stessa. Pensando in questi termini ricordiamo una lezione più antica che riguarda il completamento del significato dell’opera da parte del pubblico, prospettiva che acquista nuovo vigore ora che lo spettatore esplora il significato dell’opera insieme all’artista stesso.

Secondo tale prospettiva non è più lo sguardo dell’artista nel mirino a costruire, ma l’azione stessa. Il fatto che la fotografa non abbia modellato gli elementi della composizione, affidando tutto al gesto mosso da ciò che aveva sentito d’istinto, condensa il significato dell’opera. L’azione stessa dello scatto fotografico sancisce la volontà indagatrice di una coscienza che ambisce a estendere la propria visione o ridurla o ancora affondarla per il bisogno di espandersi.

Indietreggiamo di un passo per concentrarci sul comune sviluppo di una idea creativa. La creazione rispecchia la tanto naturale quanto costantemente repressa necessità dell’uomo di dialogare con la propria coscienza. È ovvio pensare che ogni atto artistico, o perlomeno molti, sia teso a sublimare un qualche impulso, una certa sensazione, un certo desiderio o bisogno che non siamo nelle condizioni di soddisfare oppure che non vogliamo affrontare e rifiutiamo a livello inconscio. Trasformiamo l’azione dettata dalla volontà che matura dalla coscienza in ricerca, al di fuori di noi, oltre ciò che possa riflettere o giustificare il nostro stato interiore[2]. Tale assetto è testimone dell’origine dell’intuizione, sulla base della quale procede l’idea, che deve essere nutrita e sviluppata. La forma finale dell’opera decreta la maturità dell’idea, che può a questo punto incontrare il pubblico. Nell’uso (fruizione) lo spettatore amplificherà i significati trasportati dall’immagine alimentando un intimo incontro con sé stesso, che come anticipato, avviene spesso a livello inconscio. Va da sé che ciò che viene creato non può per sua natura limitarsi ad esprimere il contenuto di cui l’autore l’ha incaricato, ma acquisirà nuove letture, nuovi punti di vista, risponderà a nuovi bisogni ad ogni nuovo atto di fruizione accolto, prospettiva che riconosce il centro di un’opera in ciò che essa comunica.

Domandiamoci se la complessa struttura dovrebbe essere modificata nel momento in cui l’opera, come in questo caso, anticipa le intenzioni e si forma sulla reazione immediata.

Comunemente la composizione avrebbe dato forma a ciò che l’artista ha sentito. Usualmente esistono una rielaborazione e un grosso intervento che portano al risultato, mentre in questo caso è come se la fotografia fosse pura, la realtà nuda presa nel suo intimo, colta impreparata. Questo basterebbe per incorniciare il significato stesso dell’immagine. Il primo spettatore di tale opera è dunque l’autrice stessa che osserva ciò che l’aveva colpita per capire, poi, il perché. In questa sorta di autonomia paradossa l’opera diventa strumento che facilita l’approccio al reale vero, fornendo un nuovo livello di lettura, innalzando un nuovo piano che andrebbe a sua volta esplorato[3]. Infine, quasi a decorazione e comunque in linea con la contemporanea esigenza di parole, a titolare la fotografia è la lettura, l’interpretazione che ne è stata fatta, l’analisi che ha razionalizzato l’ispirazione. Scattare una fotografia rinunciando ad una inquadratura curata e cercata equivale ad attribuire importanza al momento secondo, e fecondo, che è l’interpretazione dell’opera. Dal punto di vista ermeneutico la lettura permette di conoscere l’opera; in questo caso parliamo di lettura esplorativa[4] che fa riferimento al contenuto potenziale dell’opera, ampliato dall’assenza della strutturazione autoriale che crea una sorta di grado zero dello costruzione del contenuto che avviene per l’artista in sincronia con il pubblico, osservato osservatore. Gli spettatori sono la vera trasformazione dell’idea originale dell’artista. L’atto della composizione, o la sua assenza, e l’inevitabile rielaborazione post-produzione[5] scolpiscono un contenuto finito e levigato, con l’opinione dell’artista. Ma è a lavoro ultimato che l’oggetto inizia la sua vera crescita: il vero risultato, la vera opera d’arte è il significato che verrà creato in seguito alla fruizione, sulla quale non può esserci alcun controllo e la cui unica regola è quella di essere presente per il pubblico che desidera fruire l’arte.

L’attuale contesto socio-culturale promuove una fruizione che sembra sostenere la filosofia come arte stessa, come a stabilire che la vera opera è il pensiero. L’interpretazione sfoglia l’opera come se l’immagine avesse in sé un’altra immagine che ne cela una terza e così via. Ciò che non ha fine è in realtà il pensiero umano che di fronte alla realtà, così finita e infinita continua e continuerà ad interrogarsi, come ci ricorda Wim Wenders[6]:

“Ma noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà e sotto quest’altra un’altra ancora e di nuovo un’altra sotto quest’ultima fino alla vera immagine di quella realtà assoluta e misteriosa che nessuno vedrà mai.”

[1]   La fotografia è stata esposta nella mostra svoltasi nel settembre 2014 in Brianza con il titolo “Movimenti necessari”.

[2]             Tale prospettiva non vuole essere pessimista o denigratoria, ma al contrario affermare l’utilità sociale e storica

                 dell’arte, in particolare della fotografia, come anticipato, mezzo artistico prediletto della società digitale.

[3]   Chiariamo il senso della frase: facilitare l’approccio al reale, quello vero e non mediato dall’impostazione artistica, significa renderlo più complesso. Come se innalzare la struttura del significato avvicinasse all’unità, come fosse una iperurania torre di Babele.

[4]   In contrapposizione alla lettura determinativa secondo la distinzione sostenuta da Levinson in J. LEVINSON – Two Notions of Interpretation, in A. HAALPALA (a cura di) – Interpretation and Its Boundaries, Helsinki, Helsinki University Press

[5]   Tale stadio è inteso come forma di controllo in quanto non è possibile prescindere dall’intervento dell’autore, dato che anche nel momento in cui lo stesso decida di non intervenire, esercita una scelta.

[6]             Dichiarazione del regista interpretato da John Malkovich al termine del film “Al di là delle nuvole” di Wim

                 Wenders tratto dal libro “Quel Bowling sul Tevere” di Michelangelo Antonioni.

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