THOMAS RUFF TRA SACHLICHKEIT E PORTRÄT
Thomas Ruff nasce nel 1958 a Zell am Harmersbach, figlio fotografico dei Bacher, diviene uno degli esponenti più autorevoli della fotografia concettuale tedesca contemporanea, insieme a Gursky, Hütter, Struth e Höfer.
Ruff è un fotografo poliedrico, dal punto di vista della sua produzione artistica, spazia dai ritratti, di cui ci occupiamo oggi, al nudo, all’astratto puro, agli interni, all’architettura e al paesaggio industriale, sempre e comunque attraverso una concezione concettuale della fotografia.
In particolare andiamo ad analizzare la sua produzione di ritratti e vi propongo tre fotografie, che sono assolutamente assonanti e che pertanto si prestano a una lettura “collettiva”.
Per comprendere la fotografia di Ruff, bisogna partire da lontano e richiamarci alla tassonomia, cioè alla classificazione.
La tassonomia presuppone una rigorosa e asettica classificazione degli organismi viventi (in principio), per cui è rivolta alla ricerca scientifica e come tale è caratterizzata da una visione impersonale e impassibile dei soggetti, che, nel caso della fotografia, devono essere ripresi senza alcuna interferenza mitica.
Richiamandosi ai principi della rigorosa neutralità tassonomica, ai primi del ‘900 sorse in Germania nel particolare clima del primo dopoguerra (1923-24), tra i molteplici fermenti artistici di quell’epoca aurea per l’arte, una corrente artistica chiamata Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività). Essa si affermò come reazione ai soggetti simbolici e fantastici dell’espressionismo e come esigenza di un ritorno alla realtà oggettiva.
August Sander fu l’esponente più importante di questo movimento in ambito fotografico; egli s’impose di catalogare tutte le varie arti e professioni, riprendendo ciascun soggetto evitando di registrare qualsiasi esternazione emozionale. Egli realizzò un immenso archivio di ritratti, che alla luce della tassonomia va inteso come pura forma di conoscenza. Tuttavia questo movimento interessò anche le altre arti figurative tra cui l’impressionismo e il cubismo, Picasso ci mostra nel suo ritratto di Gertrude Stein, l’anticipazione di alcune caratteristiche di questo filone e questo quadro ci tornerà utile più avanti.
Venendo all’attualità dobbiamo menzionare i coniugi Becher, che fondarono la loro scuola di fotografia, oggi nota come “Scuola di Düsseldorf”, dalla quale sono usciti molti importanti fotografi concettuali contemporanei.
La filosofia della loro scuola si rifà ai concetti della Neue Sachlichkeit, in chiave tassonomica: famose sono le fotografie dei manufatti architettonici fotografati con occhio neutro e intento archivistico proprio dai Becher.
Da questa scuola Ruff apprese la logica dell’estraniazione e dell’esclusione emotiva, propria di un’oggettività distaccata: tutto deve essere puro segno grafico, anche l’elemento umano si transustanzia in oggetto, in una superfice neutra e priva di ogni connotazione affettiva.
Cito le sue parole:
“La Fotografia finge di mostrare la realtà. Con la tecnica bisogna avvicinarsi il più possibile alla realtà per poterla imitare. Quando poi ci si avvicina così tanto, nello stesso momento, ci si rende conto che non è la realtà.”
Eccoci alle prese con le tre foto di Thomas, che ho scelto per questa lettura.
Trattasi di fotografie concernenti il suo lavoro ”Anderen Porträt” (Altro Ritratto), eseguito negli anni ’80 e ‘90, che egli eseguì riprendendo semplicemente i suoi amici e amiche.
Inizialmente le foto erano in piccolo formato, poiché, come ha rivelato lo stesso Thomas in un’intervista, a quei tempi non aveva i soldi per far stampare formati grandi.
In seguito furono stampate su grandi formati.
Osservando queste fotografie, la prima cosa che c’è richiamata alla mente è la banale fototessera, comune immagine senza apparentemente nulla che attragga e di un’uniformità, come potete ben osservare, assolutamente disarmante: sembrano quasi la stessa persona.
Qui cito ancora Ruff:
“Non credo che i miei ritratti possano rappresentare personaggi reali. Io non sono interessato a produrre una copia della mia interpretazione di un soggetto. È più la mia personale idea di fotografia che si accentua nei miei ritratti. Credo che la fotografia possa riprodurre solo la superficie delle cose. Lo stesso vale per un ritratto. Riprendo immagini di persone allo stesso modo di un busto di gesso.”
E ancora:
“Io non credo nella fotografia di ritratto psicologizzante che fanno i miei colleghi, cercando di catturare il personaggio con un sacco di luci e ombre, …Questo metodo per me è assolutamente inaccettabile. Posso mostrare solo la superficie. Qualunque cosa vada oltre è quasi un azzardo.”
Come abbiamo espresso prima le persone vi sono immortalate in stile fototessera, avulse da ogni situazione emotiva, con il viso fisso, privo di emozioni evidenti, tanto che chi guarda rimane sorpreso di come il proprio tentativo di attuare un’osservazione analitica, s’infranga dovendo costatare il fallimento di questa convenzione visiva.
Ci è concesso osservare unicamente l’aspetto esteriore di questi sconosciuti, ma a differenza di quanto avviene in ritratti di altri altri autori, questo non si apre verso lo spettatore, che resta prigioniero dello status di un volto estraniato, il quale nulla gli racconta del suo stato psicologico interiore.
In tutte le immagini il soggetto è ripreso solo dalla parte superiore del busto alla testa, con uno sfondo rigorosamente bianco e uniforme, i volti sono appiattiti da una luce frontale che cancella ogni ombra che possa, in qualche modo, suggerire qualche caratteristica psicologica della persona ritratta.
I suoi ritratti, per confermare le sue parole, sono la negazione di qualsiasi concezione psicologizzante dell’immagine: non vogliono affermare nulla a proposito delle persone rappresentate, ma mostrare unicamente come funziona il ritratto dal punto di vista fotografico.
La negazione della soggettività e l’appiattimento dell’immagine provocano una serie di conseguenze, quale l’incapacità di un dialogo sul piano psicologico ed emotivo tra il fotografo e la persona ritratta.
Analogamente osservando la fotografia, non possiamo percepire alcun tipo di relazione o di mutua interazione, tra i due protagonisti.
In tal modo, il viso diventa una sorta di pretesto o un motivo a sé stante: un banale oggetto della vita quotidiana.
In sostanza gli artisti del ritratto oggettivo vogliono mostrare le apparenze, le immagini, e in effetti, i volti per loro sono solo delle semplici superfici, sostenendo così che la fotografia è solo “rappresentazione”.
Citando ancora Ruff:
“Sono convinto che la fotografia possa mostrare unicamente la superfice degli oggetti.”
Con queste parole egli ci conferma che nella sua fotografia esistono due assiomi: le persone come oggetti e la capacità della fotografia di esprimere unicamente la riproduzione oggettiva di superfici.
La ricerca Ruff, quindi, non è quella di proporre un ritratto seguendo la comune significazione, ma di riprodurre unicamente il tratto grafico del viso.
Il risultato è, in definitiva, una negazione del ritratto inteso come fenomeno antropologico, bensì esso c’è sottoposto come oggetto legato solo a questioni di approcci formali e concettuali, in cui, ricordiamo, domina la condanna della soggettività e individualità a favore di una genericità uniformatrice.
Così per determinare la caratteristica di genericità, Ruff distrugge qualsiasi ricerca dei tratti espressivi, come se i suoi modelli indossassero una maschera, che possa trasformarli nell’oggetto il più comune, il più neutrale, più indifferente possibile.
Citando Nietzsche:
“Tutto ciò̀ che è profondo ama la maschera (…). Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più̀ ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè̀ superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà.”
Ora noi notiamo che Ruff utilizza la sua tecnica di ripresa come maschera, con la finalità di cancellare, in modo letterale, la personalità del soggetto.
Qui possiamo introdurre le analogie tra i ritratti delle “maschere” di Picasso, con Ruff, accomunate dall’idea della sostituzione, ma dobbiamo anche osservare il diverso ruolo che svolgono nelle opere dei due artisti.
Occorre precisare che influssi della Neue Sachlichkeit, si riverberarono anche in diversi altri movimenti artistici quali la metafisica e il cubismo; Picasso, già agli esordi, subì questi condizionamenti, che sono particolarmente evidenti nel ritratto di Gertrude Stein.
In questo ritratto, tuttavia, la maschera nasconde un’entità, un’individualità che può essere riconosciuta.
In Picasso la maschera funziona come “avanzamento”, uno sforzo verso la ricerca dell’individualità del soggetto.
Questa maschera possiede una sua dinamica, che prolunga l’effetto di movimento della figura.
La maschera di Ruff, al contrario, è pesante e inattiva.
Cambia il volto certamente, ma per quanto riguarda li tratti che la rappresentano, non provoca questo effetto “dinamico” propria della nuova soggettività che si riscontra nel ritratto di Picasso e qui si differenziano le due filosofie concettuali.
Tuttavia i ritratti di Thomas ci riservano altre sorprese.
Régis Durand sostiene che le immagini di Thomas Ruff racchiudono la caratteristica di un rapporto antagonistico tra vicinanza e distanza percettiva.
Egli dice che:
“Le sue immagini sembrano semplici, tuttavia tanto più ci si avvicina al soggetto tanto più questo si allontana.”
L’idea proposta dall’autore è molto interessante: in questo spazio, vi è un vuoto, una distanza, un tirarsi indietro.
Nel ritratto il viso è ripreso così da vicino che non si percepisce alcuna distanza o intervallo spazio-tempo, o temporalità, tuttavia tanto più ci si avvicina a osservarlo e tanto più sembra allontanarsi soprattutto in termini psicologici.
Intendo dire che tanto più s’insite a osservare l’immagine del soggetto, tanto meno informazioni se ne derivano circa il suo habitus psicologico, la sua personalità, il suo carattere o anche, banalmente, il suo status sociale.
Si crea pertanto una sorta di deformazione spazio-temporale, che disorienta e confonde l’osservatore e in questo modo Ruff centra in pieno il suo obiettivo concettuale, cioè di spogliare la persona di ogni riferimento umano e tramutarla in una superfice geometrica da esplorare, così come potremmo fare con qualunque oggetto inanimato.
Un ultimo aspetto che dobbiamo esplorare riguarda il rapporto tra il clima politico di quegli anni e la sensibilità di Ruff.
Erano anni di tensioni, attentati e di divisioni tra est e ovest; anni di controlli assillanti, sospetti e delazioni, senza momenti di vera serenità.
Se vogliamo gettare uno sguardo asettico ai suoi ritratti, in fondo, potremmo interpretati anche come la falsariga delle foto dei passaporti e delle carte di identità, dove è appunto la persona a dover corrispondere all’immagine durante il controllo, e non viceversa.
Ruff, in alcune sue dichiarazioni, ha chiarito il latente significato politico di questo riferimento, mettendolo in relazione con il clima politico della Germania di quegli anni, caratterizzato, come abbiamo riportato sopra, dalla perdurante paura del terrorismo e dalla conseguente paranoia del controllo sociale.
Eccomi arrivato alla conclusione, e qui vorrei sottolineare come non si deve mai sottovalutare una fotografia, anche se apparentemente banale, ma come sia sempre buona cosa documentarsi e sforzarsi di farne una lettura approfondita, senza fermarsi alle epidermiche sensazioni della superficialità.