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smith14Nell’analisi della fotografia di oggi, ho coinvolto anche un mio carissimo amico medico psichiatra, psicanalista freudiano, molto serio e di grande cultura. Gli ho chiesto di scrivere, condensando in poche righe, il suo pensiero sia sul movimento surrealista, che di azzardarsi in un’interpretazione della foto in questione.

Egli ha accettato e, come leggerete, ci ha consegnato una valutazione specialistica che ci induce a riflettere sulle tante notizie che si narrano sul movimento surrealista.

Ci tengo, infine, a rilevare come la fotografia sia sempre di più un crocevia culturale di grande spessore, dove molte altre branche, a volte inaspettatamente, s’incontrano e intrecciano in un interessante crogiuolo culturale.

Prima di parlarvi della fotografia odierna, occorre fare una digressione cercando di comprendere l’essenza del movimento surrealista.

Esso nasce, come tanti fermenti artistici, ai primi del novecento come reazione alla violenta intrusività dei dadaisti.

Lo spirito del surrealismo che ha coinvolto tutte le arti figurative, trova il suo fondamento sulla libera associazione delle idee, come avviene nel processo onirico studiato da Freud.

Non a caso il suo più illustre fondatore André Breton era medico e, in particolare, era neuropsichiatra, filo freudiano.

Egli ha definito il surrealismo come:

“…Automatismo psichico puro che riflette il vero funzionamento del pensiero, in assenza di qualsiasi motivazione o preoccupazione morale o estetica”.

Ponendo l’accento sulla scrittura automatica, la quale scaturisce dalla libera associazione d’idee, di origine inconscia, e la cui produzione è paragonabile a quella parte di noi che emerge durante la dimensione onirica o meditativa, i surrealisti proposero un parallelismo tra gli aspetti psicanalitici dell’isteria e delle esperienze psicotiche, nei processi di produzione artistica.

Così, nel corso degli anni 1920 e 1930, s’intersecavano elementi isterici e psicotici nella loro produzione artistica, riconoscendoli come una forma di liberazione psichica dal mondo razionale.

A tale proposito è illuminante il famoso film di Luis Buñuel: “Un Chain Andalou” [Un cane andaluso – nda], che provocò scandalo e scalpore, ma che rappresenta la pietra miliare del cinema surrealista e che vi consiglio di visionare qui:

Bunuel

VISIONA IL VIDEO

Pertanto gli elementi base del surrealismo sono fondamentalmente la libera associazione d’idee e il riferimento al sogno quale fonte inesauribile di disinvolta produzione artistica.

Anche se poco noto come fotografo, diede un suo coinvolgente contributo Dalì, del quale vi mostro due immagini significative:

dali_atomica

Dalí Atomica, realizzata nel 1948 insieme a Halsman

Dali_skull

Voluptas Mors, 1951

Immagini che ci richiamano il metodo di lettura “Paranoico-critico” ideato da Dalì medesimo, così egli definisce la paranoia come:

“Una malattia mentale cronica, la cui sintomatologia consiste nelle delusioni sistematiche. Le delusioni possono prendere forma di mania di persecuzione o di grandezza o ambizione”.

Per Dalí, il processo critico costituisce il processo di razionalizzazione della paranoia.

In pratica, consiste nella rielaborazione razionale del pensiero paranoico, ovvero le delusioni, le allucinazioni e il delirio.

Grazie al processo critico, la paranoia e le sue oniriche presenze affiorano dall’inconscio. In questo modo fungono da stimolo alla fantasia creatrice dell’artista e possono tradursi in immagini.

Dalí scrive:

“…attraverso un processo nettamente paranoico è possibile ottenere un’immagine doppia, rappresentazione di un oggetto che, senza la minima modificazione figurativa o anatomica, sia al tempo stesso la rappresentazione di un oggetto assolutamente diverso…”.

A tale proposito vi invito a osservare questa fotografia:

dali_surreale

La fotografia in questione ha una peculiarità: dove, come, quando e chi, non si sa. Sul numero di giugno 1935, Dalì l’ha pubblicata in un articolo intitolato: “Psicologia non euclidea di una fotografia” sulla rivista Minotaure.

Nel suo scritto si legge:

“Smettete dunque, caro lettore, di osservare con quella indulgenza non priva di malizia (che leggo nel vostro sguardo) i tre volti rapaci e perseveranti, e soprattutto quello del personaggio tenebroso, immerso nelle tenebre, che più di altri, lo sento, attira, in una sorta di vertigine, la vostra penetrante attenzione. Distogliete, vi prego (anche se è contro la vostra volontà), gli occhi dal centro ipnotizzante di questa fotografia e volgeteli con cauta aspettativa verso l’angolo sinistro inferiore: e là, subito sotto il marciapiede, potrete osservare con stupore, nuda, pallida, spelacchiata, immensamente incosciente, pulita, solitaria, minuscola, cosmica, non euclidea, una buona bobina senza filo, perchè la sua insignificanza non vi faccia dubitare della sua presenza piccola ma reale, della sua dura e pura oggettività, fissate il vostro sguardo su questa bobina senza filo, perchè è di essa che Salvador Dalì vi parlerà…. Questa bobina senza fili, reclama infatti e a gran voce una interpretazione…”.

Riprendendo il discorso circa l’influenza della psicanalisi sulla fotografia di Smith, riporto una risposta che egli diede in un’intervista:

“Chi ha avuto la maggiore influenza su di te: Freud o Magritte?

Freud. Ho un timore riverenziale nei suoi confronti. Sono assolutamente convinto che l’inconscio sia ciò che realmente muove tutto. Alcune persone pensano che sia necessario possedere un talento artistico intrinseco, per diventare un artista di successo, ma vorrei controbattere che la chiave, essenziale per essere un grande artista, sta nell’avere accesso ai propri sentimenti.

La maggior parte delle persone sono inconsapevoli di ciò che realmente sentono, tanto che l’hanno completamente rimosso, che sono incapaci di riconoscere le loro emozioni o addirittura le rimuovono.

Non sto dicendo che è facile gestire le proprie pulsioni: è molto difficile e la maggior parte delle persone non è in grado di controllarle. Ma ognuno di noi ha il potenziale per farlo, e penso che io, senza 25 anni di psicoterapia, non sarei mai arrivato a essere un fotografo di successo.

La psicoanalisi freudiana è il dono più grande che sia mai stato dato, molto più importante del denaro o qualsiasi altra cosa.

Socrate aveva ragione quando ha affermato che una vita non sottoposta ad analisi non è degna di essere vissuta.

Credo che l’intuizione di Freud sulla psiche umana sia veramente incredibile, proprio il fatto che egli sia stato in grado di vedere ciò che è così difficile da vedere”.

Ma qual è realmente il ruolo della psicanalisi nel movimento surrealista?

Per questo ho chiesto al mio fraterno amico Roberto Contardi, medico psichiatra, psicoanalista e docente presso l’Istituto Nazionale di Training della Società Psicoanalitica Italiana (Componente della International Psychoanalytical Association)i, una sua valutazione sia sul movimento, che (leggeremo più oltre) sull’immagine di Smith ed ecco cosa mi scrive:

“Nel dicembre del 1937, sedici anni dopo il viaggio in Austria con l’obiettivo di stabilire la conoscenza e il confronto diretti con il venerato fondatore del sapere dell’inconscio, il poeta André Breton, leader teorico del movimento surrealista, propose al Maestro viennese la collaborazione nella pubblicazione di una raccolta intitolata Trajectoire du rêve [Il percorso dei sogni – nda]. Freud respinse l’offerta rispondendogli che «una raccolta di sogni senza le ‘associazioni’ a essi connesse, senza la conoscenza delle circostanze in cui un sogno ha avuto luogo – una raccolta di questo tipo non vuol dire nulla per me e non riesco neppure ad immaginare cosa possa voler dire per gli altri».

Pur senza entrare nella complessità dei presupposti storici e concettuali necessari all’inquadramento e alla comprensione del dialogo intercorso tra il Surrealismo e il pensiero psicoanalitico, la distanza assunta da Freud nel passaggio citato consente di intravedere l’impossibilità sostanziale della collocazione, auspicata da Breton, della dottrina freudiana a base immediatamente da lui condivisa dell’edificio teorico del movimento surrealista. Sinteticamente: l’inconscio e il lavoro con esso e su di esso presupposti attraverso le diverse forme espressive nell’universo dell’arte surrealista e attraverso il contributo dottrinale nel campo psicoanalitico, a parte il loro generico e superficiale rinvio a una medesima e fondamentale regione dello spirito della quale il sogno è indiscusso messaggero, rimangono sostanzialmente estranei ed inavvicinabili l’uno all’altro. Non è sufficiente, senza disporre del metodo e degli strumenti adeguati, proporre la propria volontà di aprirsi ad una produttiva «conciliazione tra realtà e stato onirico in una sorta di realtà assoluta, di surrealtà, se così si può dire» (Breton 1924), per accedere ad essa.

Non solo. L’inavvicinabilità così rimarcata mi pare possa costituire il principale tratto in evidenza analitica nelle opere surrealiste, pur con le differenti inflessioni proprie delle diverse forme espressive in cui, anche in correlazione a tempi diversi della storia del movimento artistico, quest’ultimo si è manifestato, non ultima nell’arte della fotografia.”.

Quindi, nonostante che Breton, e con lui tutti i surrealisti, cerchi giustificazioni nei meccanismi psicanalitici, in realtà questi vengono quantomeno travisati nel manifesto del movimento.

Se, infatti, torniamo al filmato, notiamo che la libera associazione di idee segue un ritmo e un filo razionale. Per fare un esempio, all’inizio del filmato il rapporto unghia-luna-occhio seguono un rigore logico, che contrasta in modo stridente con l’irrazionale onirico.

Da quanto scrive Contardi, risulta evidente che questo nesso surrealismo – Freud è soltanto una giustificazione di Breton e dei surrealisti, ma le dinamiche psichiche alla base del contenuto artistico, sono ben lontane da quell’automatismo, che gli autori vorrebbero incarnato nella psicanalisi freudiana.

Veniamo così alla fotografia oggetto della nostra lettura:

smith14

All’inizio, quando ho dato un primo sguardo a questa fotografia, mi sono immediatamente posizionato nell’ottica della libera associazione di idee, ma il buon amico Roberto mi scrive:

“L’immagine volutamente “surreale” di Rodney Smith – fotografo con debito d’ispirazione alla produzione pittorica di René Magritte – proposta da Pietro Collini – è in questo senso significativa: l’estremo equilibrio formale della sua composizione, la dimensione, la posizione, la collocazione degli oggetti e delle persone davanti allo skyline di Manhattan, i loro reciproci rapporti, manifestano l’indubbio risultato del magistrale lavoro svolto dal pensiero vigile dell’artista in accordo con la “realtà”, ma in esso l’astrazione da ogni elemento espressivo narrativo impedisce la manifestazione personale e la compresenza dello stato “onirico” da cui pure ha preso le mosse. La mirabile e congelata “impersonalità” così raggiunta marca in ciò insieme la grandezza e l’inaccostabilità di una tale immagine all’incandescenza del materiale inconscio e alla sua forgiatura creatrice operata dal lavoro psicoanalitico.”.

Quindi nulla di onirico, ma una lucida e fredda composizione, che nulla lascia al caso o al sogno.

Così che, discutendo con lui proprio riguardo quest’aspetto, mi ha obiettato che se veramente fosse frutto di libera associazione onirica, saremmo al cospetto di un paziente affetto da una grave forma psicotica, e aggiunse: “Ma nemmeno un vero psicotico arriverebbe a tanto!”.

Leggendo l’immagine di Rodney Smith, ci accorgiamo subito della sottile ironia con la quale, attraverso l’utilizzo delle persone, egli “faccia il verso” allo skyline di Manhattan e quindi alla più nota e importante città del mondo.

Un modo semplice e garbato di esprimere il suo senso d’irriverenza nei confronti di questa città.

I corpi mimano gli edifici, ma non solo. Egli pone il maschio a rappresentare le Twin Towers (evidentemente la foto è di molto precedente la tragedia), connotandole sessualmente, attribuendo ad esse un chiaro significato fallico: rivolto verso il cielo. Tuttavia l’uomo, come anche tutte le donne che lo circondano, ha in mano un ombrello aperto, il cui significato ci parla della sua ambivalenza nel rappresentare sia l’organo sessuale maschile, che femminile, quasi a mimare un atto sessuale. E qui entriamo nel torbido delle allusioni “inconsce”? Forse…

Il maschio, addirittura, si pone su una scaletta, che potremo interpretare come una sottolineatura ulteriore della sua supremazia sull’altro sesso,

Infatti gli altri “grattacieli” sono femmine e, almeno in teoria, soggiacciono al maschio, salvo una che si ribella, girandosi e guardando oltre, ignorando sia l’uomo, che le strutture architettoniche, in un gesto di fiera contrarietà all’uniformità di un pensiero dalla forte connotazione maschilista.

Interessante è analizzare il ruolo della bambina all’estrema destra.

Contrariamente alla donna di sinistra che è accovacciata, denotando un atteggiamento sessualmente provocatorio, la bimba è seduta su uno sgabello e appare rilassata, lontano da pensieri o connotazioni offensive o subdole.

Posso interpretare il convincimento di Rodney come una forma di rispetto verso l’innocenza prepubere, come una forma di censura verso il suo IO, tale da impedirgli di spingersi verso pensieri inopportuni e inconciliabili con la sua coscienza.

Riprendendo la valutazione di Roberto, un elemento che ci conferma l’elevata fredda razionalità di Smith nel comporre l’immagine, sta nei vestiti.

Osservateli con attenzione. Innanzitutto l’uomo porta un “gessato” a sottili righe verticali, che, guarda caso, riprendono la texture del disegno delle finestre e facciate delle Twin Towers.

Analogamente i quadretti stretti delle due figure femminili di sinistra, riprendono le dimensioni ed il ritmo delle facciate dei grattacieli che hanno di fronte.

Lo stesso meccanismo, che definirei mimetico, coinvolge le altre due donne di destra.

È quindi evidente che Rodney non si è basato su una pura sensazione onirica, ma ha utilizzato uno stringente fideismo, pur porgendocelo come associazione, apparentemente, libera d’idee.

Un’ulteriore osservazione la riserviamo ai cappelli. Anche qui il richiamo alla verticalità è evidente, ma, con l’eccezione di quello maschile, hanno tutti una forma a torre, che nella simbologia freudiana rimarca l’organo sessuale maschile, mentre per Jung “torre” significa invece “orgoglio”, “isolamento”, “difesa verso l’esterno”, che mi parrebbe più consono all’atteggiamento tenuto dalle donne. Ecco che qui compare un elemento junghiano, che è in netto contrasto con la psicanalisi. Infatti, secondo Roberto, più che verso Freud, bisogna guardare i surrealisti con l’occhio di Jung: tutta un’altra storia!

E ora la valigetta: cosa simboleggia? In Freud, stando ovviamente sul vago, essa viene identificata come l’utero materno, il contenitore per eccellenza e, in fondo, anche il luogo delle sicurezze e delle certezze: l’uomo che trova nell’altro sesso un riparo, una sensazione di protezione, una visione materna della donna.

Ecco come, razzolando qua e là nella fotografia di Smith, abbiamo giocato con la libera associazione d‘idee. Sicuramente un esercizio divertente e, credo, istruttivo su come possa accadere che una fotografia certamente originale e geniale, ci racconti tante storie, molte sensazioni e altrettante emozioni.

Alla fine ci poniamo ancora una domanda: il rapporto con Magritte?

Eh sì, perché tra le fotografie di Rodney Smith e i quadri di Magritte, vi sono tante somiglianze

Prendiamo per esempio il dipinto: “Il capolavoro o i misteri dell’orizzonte”, del 1955:

magritte_orizzonte

A proposito di questo quadro egli scrive:

“Ogni uomo ha la sua luna. Quando pensa, pensa alla sua luna. Ognuno ha la sua luna, eppure c’è una luna sola. Questo è un problema filosofico: come dividere l’unità. Il mondo è un unità eppure quest’unità può essere divisa. Questo è un paradosso prodigioso. Perciò lo chiamo il capolavoro. È un paradosso e dobbiamo accettarlo. C’è una luna sola, una ogni uomo ha la sua idea della luna, che è la stessa luna. […] Inoltre è un mistero. Il pensiero ha un orizzonte ed è un mistero che il pensiero abbia quest’orizzonte: e non spazio, non spazio infinito”.

Ecco che seguendo le parole di Magritte, possiamo traslare in Smith il paradosso, il mistero e il concetto di orizzonte o soglia. Tutti questi ingredienti, in fondo, sono in comune con la fotografia di Rodney e, come abbiamo preso atto in altri casi, tante volte pittura, fotografia e altre arti figurative sono in sintonia tra loro, spalancandoci un mondo da scoprire d’interazioni e di comunanza di sentimenti e di emozioni che vale la pena analizzare e vivere.

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