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soberats“Ex tenebris lux”: dalle tenebre creò la luce. Mai aforisma fu più calzante per definire una fotografa come Sonia Soberats, se prendiamo atto che trattasi di persona non vedente.

Avete capito perfettamente, è cieca, sembra impossibile come questa signora di settantanove anni e piena di vita, riesca a creare delle fotografie veramente incredibili e di notevole spessore artistico. Lei rappresenta, in fondo, un ossimoro della fotografia.

Venezuelana di nascita e newyorkése di adozione, la vita di Sonia è stata spesso costellata di episodi drammatici: la perdita della figlia per un tumore all’ovaio e la morte del figlio per un linfoma. La cattiva sorte, non contenta, si è accanita su di lei privandola della vista per una grave forma di glaucoma.

Invece di disperarsi e lasciarsi andare alla deriva, questa donna straordinaria avuto lo spirito di iscriversi, nel 2001, a una scuola di fotografia a Manhattan, la cui specificità sta nell’insegnare a persone con disabilità – compresi altri soggetti non vedenti – a utilizzare la fotografia come mezzo sia di terapia, che di espressione interiore.

Grazie a questa scuola ha imparato fotografare e, come vedremo oltre, è oggi in grado di presentarci dei veri e propri capolavori e non è la sola. Molti altri fotografi non vedenti producono immagini di grande impatto emotivo, tra questi vi segnalo: Ralph Baker, Henry Butler, Pete Eckert, Bruce Hall, Annie Hesse, Rosita McKenzie, Gerardo Nigenda, Michael Richard, Kurt Weston, Alice Wingwall. Come leggete non sono pochi, ma a mio parere la nostra Soberats li sovrasta per capacità lirica e concettuale.

La prima curiosità, certamente, è capire come Sonia possa produrre una fotografia. Innanzitutto nella sua mente l’immagine prende forma, possiamo parlare di una vera e totale pre-visualizzazione. Lei ha lucidamente e scientemente tradotto il suo sentire interiore in un’immagine ben precisa, dettagliata in ogni suo particolare. Spesso le sue fotografie, considerando il suo vissuto, ci parlano del dolore, della sofferenza e della morte, ma sempre, come vedremo, con una scintilla di speranza, un soffio di positività.

Sonia ha scritto:

“Tanto più complessa è la foto, tanto maggiore è la soddisfazione quando, una volta realizzata, è riuscita bene…”

E ancora:

“Essere in grado di realizzare e ottenere qualcosa che tutti ammirano è assai gratificante… Mi ha sorpreso che la mente umana può fare quello che vuole se lavoriamo nella direzione corretta”.

Ogni sua immagine prevede la presenza umana, che, prima di iniziare il lavoro di ripresa, analizza con il tatto, ricostruendo nella sua mente il volto preciso. Per questo s’informa circa il colore dei capelli, della pelle, degli occhi ecc. Nulla è lasciato al caso, ogni elemento, nella sua mente è catalogato, preparato con meticolosità, pignoleria e precisione matematica.

Poi, dopo aver ben edotto il soggetto su quale espressione e posa assumere inizia la ripresa vera e propria. Apre l’otturatore della macchina fotografica e, nel buio più assoluto, comincia a lanciare chiazze di luce, utilizzando la tecnica chiamata light painting, cioè utilizza una torcia come fosse un pennello e passa il fascio di luce sul soggetto come se, appunto, lo stesse dipingendo. Ogni seduta può durare dai venti minuti fino ad anche un’ora o più e utilizza sia delle torce, che anche lucine natalizie, per creare effetti luminosi quasi surreali.

A questo punto prendiamo coscienza che la fotografia prende vita dalla più totale oscurità, in cui Sonia stessa è perennemente immersa, e allo stesso modo anche il protagonista è trasportato nel suo mondo oscuro, nel quale perde coscienza di sé, vivendo un’esperienza psicologicamente molto intrigante e coinvolgente. Paradossalmente il modello, o la modella, divengono i veri non vedenti, mentre Sonia “vede” benissimo tutta la composizione della scena, innescando un’interessante inversione di ruoli.

Alla fine della ripresa un suo assistente le descrive con dovizia di particolari, l’immagine finale e, se corrisponde alle sue attese, allora è accettata.

Anche qui un paradosso: Sonia non può vedere il prodotto della sua creatività, deve immaginarlo attraverso la narrazione di un intermediario. Poi ricostruire il tutto nella sua mente e sovrapporre due fotografie mentali: l’immaginato e l’illusione del reale, attività non facile…

Qui un video significativo:

video

Ed ecco alcune immagini indicative:

 

Death Watch
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E ora veniamo a quella che ho scelto e che ha il titolo: “Portrait in Paper” cioè “Ritratto nella carta”.

 

 

portrait in paper mark alberts Ingrandisci

Si tratta del ritratto di un suo amico, tale Mark Alberts, il cui volto lei ha provveduto ad avvolgere in fogli di carta crespa bagnata, così da conferirgli un aspetto simile a una statua scolpita nella pietra grezza.

Analizzando questa fotografia appare evidente che ci troviamo di fronte ad un’immagine di tipo mitico, cioè a una fotografia che certamente non è banalmente documentale, ma racchiude in sé moltissimi aspetti sia eidetici, cioè di contenuto grafico e astratto, che concettuale. Vale a dire che questa fotografia entra, a mio parere, a pieno titolo tra le foto d’arte concettuale e vediamo il motivo.

Innanzitutto il volto grazie all’espediente della carta crespa bagnata, assume di per sé una sua tridimensionalità e viene a perdere il carattere del tratto umano in quanto tale, con questo espediente l’autrice vuole trasformare la persona in oggetto. Quest’oggetto è per se stesso caratterizzato da una sua geometria e da una sua matericità a testimonianza del fatto che il non vedente può conoscere sia attraverso l’udito, che qui ovviamente non c’entra nulla, ma soprattutto attraverso il tatto. Sonia qui intende trasmettere il messaggio che anche noi, nell’atto paradossale di osservare l’immagine, dobbiamo percepire nettamente le sensazioni tattili di ruvidezza, spigolosità, asperità e consistenza. Sonia parte da questi stimoli tattili per approdare all’immagine, noi siamo obbligati a percorrere il sentiero al contrario.

Osservando bene notiamo altresì la mancanza degli occhi, sembrano quasi strappati in un atto violento, come per trasmetterci in tutta la sua drammaticità, il dolore e l’angoscia della cecità. Un sentimento questo del dolore, che ricorre molto spesso nelle fotografie di Sonia; del resto come ben sappiamo, il suo vissuto è stato lastricato di sofferenza e sarebbe inimmaginabile che non entrasse prepotentemente a far parte della sua espressività artistica.

Lo “strappare gli occhi”, come gesto di ribellione verso chi vede, ci costringe sempre di più a immergerci nella sua realtà e a immaginare di vedere la sua fotografia non come un’esperienza ottica, bensì come un’interiorizzazione tattile; di obbligarci a tradurre l’osservazione in sensazione.

Un altro aspetto interessante di questa fotografia sta nel fatto che il soggetto appare contemporaneamente ripreso di fronte e di profilo. Questa doppia prospettiva mi richiama alla mente il cubismo, tecnica pittorica attraverso la quale l’autore ci propone il soggetto visto contemporaneamente in diverse vedute prospettiche, che testimonia il superamento del problema dello spazio e della sua rappresentazione sulla superficie. Di fatto la sintesi delle tre dimensioni è proposta come ribaltamento della profondità sul piano e come scomposizione e compenetrazione degli oggetti, affinché tutte le sensazioni da essi provenienti abbiano lo stesso grado di evidenza e d’intensità.

Rifarsi nel cubismo, interpretando questa fotografia, non mi sembra un fatto semplicemente culturale, ma ritengo che l’autrice abbia inteso sfruttare questa tecnica per rafforzare, nell’ambito concettuale, lo stimolo astratto che troviamo analizzando il volto di quest’uomo, che, nell’intento dell’autrice, perde la sua fisicità a favore di una sua trasformazione in oggetto estetico e che nel suo mondo ogni fantasia è lecita.

L’ultima osservazione che vorrei portare alla vostra attenzione è che in questa fotografia, ma anche in altre, abbiamo una povertà di gradazioni intermedie di grigi, non che non ci siano, ma tante volte la luce quasi “assoluta e squillante” prevale, accompagnata da neri “profondi e totali”, quasi che da non vedente non abbia cognizione delle mezze misure, come se il suo mondo sia fondamentalmente descritto da luce e tenebre, senza compromessi.

In buona sostanza, appare ancora più evidente come in questa fotografia Sonia ci proponga elementi concettuali di grande spessore la cui interpretazione non può certo fermarsi a semplice momento osservativo. Essi ci costringono ad andare ben oltre, verso interpretazioni che richiedono un impegno mentale gravoso per cercare di indossare metaforicamente il suo abito di non vedente e contemporaneamente ci rendono consapevoli della necessità di possedere una conoscenza dell’arte, che ci dia la facoltà di andare oltre l’apparenza.

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