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01_RongRong_inri Rong Rong nasce nel 1968 in Cina e studia arte e fotografia nella provincia di Fujian, successivamente si trasferisce a Pechino, nell’East Village, che era il quartiere dove abitavano gli artisti dell’avanguardia cinese.
In quel periodo egli fotografava i suoi amici che utilizzavano i loro corpi nudi per produrre performance artistiche così estreme da raggiungere il limite della sopportazione fisica.
In seguito alla distruzione, da parte delle autorità, di quel ghetto artistico, Rong iniziò il suo lavoro “Ruins”, documentando la progressiva distruzione d’interi quartieri popolari, per far posto ai nuovi grattacieli della nascente capitale del business.
Nel 1999, durante una sua mostra personale a Tokyo, conosce Inri (nata nel 1973), una fotografa giapponese, di talento, le cui immagini sprigionavano una forza creativa quasi violenta e fuori dal convenzionale.
Tra loro si creò immediatamente un profondo feeling sia affettivo, che artistico. Dal 2000 hanno deciso di proseguire la loro vita, sia artistica, che quotidiana, insieme a Pechino, dove producono i loro lavori in analogico, su stampe BN all’argento, talora delicatamente colorate a mano. Vi riporto un brano da un’intervista a Rong:

“In un primo momento, non avevamo deciso di prendere uno stile comune a entrambi, perché eravamo molto indipendenti. Ciascuno di noi aveva già prodotto diversi lavori individualmente, prima di allora. Nove mesi dopo il nostro incontro alla mia mostra a Tokyo nel 1999, lei decise di trasferirsi a Pechino. Così abbiamo anche iniziato a viaggiare e da allora abbiamo iniziato a lavorare davvero insieme. Siamo cambiati quando la natura ci ha abbracciato.

Da quel momento in poi, abbiamo abbandonato tutto quello che era stato il nostro passato. È stato come rinascere in un nuovo mondo. Dentro l’abbraccio della natura, abbiamo cominciato la nostra vera collaborazione.

[…]

A quel tempo, la lingua non è stata l’unica – e non certo importante – modalità di comunicazione tra noi. All’inizio, io non parlavo giapponese e lei non si esprimeva in cinese. Attraverso la fotografia e il nostro corpo, abbiamo visto la vita sotto una diversa prospettiva. Con il nostro lavoro vogliamo trasmettere la relazione tra uomo e natura, così come il rapporto tra me e Inri.”

Ecco che già subentrano due elementi fondanti del loro lavoro: il connubio con la natura, quale espressione di una filosofia che trova le sue radici in un sentimento animistico e primordiale.
Questa visione cosmogonica caratterizzata da un legame profondo uomo e natura, è presente sia nella filosofia cinese Dao, in cui l’uomo è considerato un elemento della natura, che, ancora più rafforzata, nella filosofia Fen Shui in cui il rapporto uomo/natura e la sua armonia è alla base di un equilibrio superiore.
Anche la filosofia giapponese Zen porta con sé importanti elementi di rapporto uomo/natura, come ritroviamo nelle parole di Tsujimura Kōichi (Pensatore della Scuola di Kyōto, è stato allievo, per la filosofia, di Tanabe Hajime e Nishitani Keiji all’Università di Kyōto e, per la pratica zen, di Hisamatsu Hōseki Shin-ichi e Ōtsu Rekidō Daizōkutsu.
Tsujimura è lo studioso che più ha approfondito il tema delle affinità tra il pensiero di Heidegger e il Buddhismo zen:

“Noi giapponesi, fin dall’antichità, siamo in un certo senso degli uomini naturali. Vale a dire che non vogliamo in alcun modo signoreggiare sulla natura, mentre vorremmo vivere e morire quanto più è possibile in un modo conforme alla natura. Un comune giapponese disse ai suoi dal letto di morte: “Sto per morire. Come le foglie cadono in autunno.” E un maestro zen, per così dire il progenitore della mia personale pratica zen, prossimo a morire rifiutò un’iniezione e disse: “Perché prolungare la vita con una tale forzatura?” Invece di prendere il farmaco, bevve un sorso del suo vino di riso preferito e morì in pace. Se ben considerato, qui si avverte un contrasto stridente tra la tradizione spirituale antico-giapponese e una vita determinata dalla tradizione spirituale europea e dalla scienza e tecnica europee. In breve, vivere e morire secondo natura: questo era, per così dire, un ideale per l’antica saggezza giapponese.

   Questo naturalmente non significa che noi giapponesi non abbiamo volontà, ma che al fondo della volontà regna la natura. La volontà è nata in prima e ultima istanza dalla natura e sparirà nella natura, la quale però si sottrae a ogni oggettivazione scientifica, pur rimanendo dappertutto presente. Natura in giapponese si dice shizen o jinen, “esser così com’è da sé”; in breve, “esser sé” e “esser vero”. Perciò “natura” nel giapponese antico era sinonimo di libertà e verità. Questa concezione della natura è stata approfondita attraverso la “visione della transitorietà e della vacuità” di tutte le cose, propria del buddhismo.”

Pertanto sia la filosofia cinese, quanto quella giapponese trovano profonde radici nel collocare l’uomo, non al centro, bensì dentro la natura.
Diviene evidente come per loro sia concreta la necessità di vivere il loro rapporto come simbiotico: cioè fare di loro una persona unica.
Il rapporto che loro intraprendono con la natura, si traduce fotograficamente nelle immagini dei loro corpi nudi e indissolubilmente vincolati, ripresi anche in condizioni ambientali estreme come sotto una nevicata, al gelo dell’inverno rigido o nel cuore del deserto più rovente.

Ecco due loro immagini che ben si prestano a una lettura approfondita e che manifestano anche diversi elementi in comune:

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Appare evidente, all’occhio dell’osservatore, il rapporto unificatore dei loro corpi: nella prima immagine i loro capelli sono intrecciati e vincolati, stretti in un’indissolubilità, non solo ideale, ma anche fisica; nella seconda i loro corpi, in mutuo contatto, appaiono quasi saldati, senza soluzioni di continuità non in un abbraccio, ma in una vera e propria fusione.
L’altra considerazione è che in entrambe le opere essi cercano di fondersi e d’integrarsi fisicamente con l’ambiente che li circonda.
Nella prima ci mostrano come il bianco delle loro magliette, unito al loro atteggiamento nello spazio e al movimento delle lenzuola, che li ricoprono parzialmente, tendano a ricreare geometricamente e spazialmente le finestre (loro), di un bianco puro, oltre le quali non c’è fornita alcuna informazione, mentre i loro capelli, uniti in tal guisa, richiamano le geometrie disegnate dallo spazio tra le tende. Tende che si continuano idealmente con le lenzuola che li rivestono e che irradiano una sensazione di un’ideale, ma non solo, fusione con l’ambiente stesso: Rong e Inri sono essi stessi l’ambiente in cui si trovano. A conferma di quanto riusciamo a interpretare, la fotografia ci invia anche la netta sensazione di non riuscire a distinguere chi sia l’uno o l’altro (anche se la silhouette dei corpi ci restituisce dei messaggi esplicativi.).
Insistendo nell’analisi della prima, colpisce la fotografia nel quadretto in alto a sinistra, dove appare ripreso un (credo) uomo che guarda con interesse Rong e Inri. Il suo atteggiamento è intrigante, poiché sembra proprio sporgersi da dietro la tenda per osservarli, quasi si trattasse di un viveur. Quale il suo scopo? Francamente mi sfugge, ma potrei ipotizzare che simboleggi la curiosità umana nei confronti di chi esprime un rapporto di comunione totale tra la natura e i loro corpi.
Nella seconda fotografia, come già accennato, i loro corpi si fondono, non solo tra loro, ma anche con il muro stesso del manufatto umano della grande muraglia cinese. Contemporaneamente il disegno della loro anatomia, richiama nettamente il profilo delle montagne sullo sfondo – e questo, sicuramente non è un caso – che i nostri autori verosimilmente hanno scelto con maniacale accuratezza. Anche questa situazione prospettica è certamente finalizzata a stressare il loro concetto di fusione corpi/natura.
Le tonalità tenui della colorazione successiva riportano nei loro corpi le cromie del cielo e del ciano delicato della terra, anche questa scelta stilistica trova verosimilmente la sua spiegazione sempre nel voler integrare i concetti filosofici che sono alla base della loro produzione artistica.
Un ultimo elemento che colpisce, nelle immagini, risiede nella totale cancellazione dei volti. E questo non dovrebbe sorprenderci. I volti, seguendo la loro filosofia, potrebbero essere dei “perturbanti”, cioè elementi che costringerebbero l’osservatore a interpretare dei messaggi che distrarrebbero la sua attenzione dal concetto di fusione uomo/natura, concedendo all’essere umano una sua individualità, che loro vogliono ignorare e negare concretamente: potenza della capacità della comunicazione psicologica dell’espressione umana.
Nelle fotografie di Rong e Inri, appare scontato come lo spazio topologico del fotogramma sia sfruttato a fini eidetici per trasmetterci un messaggio che riprenda alcuni fondamenti comuni delle due filosofie orientali, nello specifico del rapporto tra uomo e natura. O, per meglio porre l’accento, di come l’uomo sia egli stesso nella e della natura intesa come assoluto cosmico.
Ecco che quindi ogni elemento plastico, trovi una sua sistemazione precisa, ponderata ed efficace, finalizzata a rendere quest’unione l’espressione fondante della loro cosmogonia.

 

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