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Diapositiva30“VEDERE, REGISTRARE, MOSTRARE” questo dovrebbe essere, a mio parere, il motto del perfetto reporter. Uno degli aspetti forse meno considerati in questo genere fotografico è proprio l’etica.
Potremmo tranquillamente distinguere due etiche: l’etica del “quando” e l’etica del “come”.

 

 

ETICA DEL COME
Parlando di “ETICA DEL COME” dobbiamo considerare che la strategia comunicativa del reportage, trova la sua radice fondamentale nell’indice, cioè nel rappresentare nel modo più fedele possibile la realtà dei fatti, questo dovrebbe essere pertanto il motore che dovrebbe spingere ogni fotoreporter a essere il più obiettivo possibile.

Tuttavia come scrisse W. Eugene Smith:

“Quelli che credono che il reportage fotografico sia “selettivo e oggettivo”, ma non possa decifrare la sostanza del soggetto fotografato dimostrano una completa mancanza di comprensione dei problemi e dei meccanismi propri di questa professione. Il foto-giornalista non può avere che un approccio personale ed è impossibile per lui essere completamente obiettivo. Onesto sì, obiettivo no.”

È proprio da questa an-obiettività che può svilupparsi l’icona, unica immagine tra le tante di un reportage, che avendo un carattere più di somiglianza che non di indice, perde la valenza di documento che fissa il singolo momento di una vicenda o di un periodo storico, ma si trasforma in un’immagine riassuntiva di un accaduto più grande e impegnativo, come ad esempio di un evento bellico, come avvenne per Capa e Ut, oppure della sofferenza di un popolo oppresso per McCurry.
Quindi attraverso l’icona, la fotografia di reportage si propone come un messaggio potente che può sfidare il tempo e muovere le masse.
Tuttavia uno dei punti deboli dell’icona è la mistificazione. Per mistificazione intendo una fotografia che, pur contenendo in pieno il messaggio indicale, grazie a semplici alterazioni quale il ritaglio dell’immagine o di vera e propria manipolazione della stessa può divenire veicolo di messaggi fuorvianti e sopraffare quell’onesta realtà che i reportage dovrebbe testimoniare.
Un esempio abbastanza clamoroso riguarda proprio la famosa foto di Ut.
A mio avviso quando si modifica una fotografia, si compie comunque una “mistificazione”.

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Se analizziamo le due immagini troviamo che nella prima i soldati sembrano essere minacciosi: danno la sensazione di scortare dei prigionieri, con le armi spianate in mano. In quella integrale questo aspetto viene a decadere, i soldati sono lì per portare in salvo i bambini. Potremmo fare la considerazione che dal loro comportamento traspare anche un che di indifferenza nei confronti dei bimbi, ma in nessuna delle due foto si può evincere che Kim sia ustionata e pertanto a mio parere l’elemento del contendere non è la bimba ustionata, ma il modo di far apparire i soldati ora aggressivi, ora protettivi.
Il messaggio che traspare dall’immagine pubblicata è, quindi, ben diverso da quello originario, anche se proprio grazie a questa foto manipolata, si creò un grande trauma nella coscienza collettiva che, a sua volta, si tramutò in un grande stimolo contro quella guerra.

Un altro esempio da riferire è quello accaduto a Narciso Contreras: il fotografo premio Pulitzer licenziato per aver ritoccato una foto della guerra in Siria.

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Con le sue foto, che testimoniavano gli orrori della guerra in Siria, aveva vinto insieme a quattro suoi colleghi il Premio Pulitzer 2013. Ma ora Narciso Contreras, un fotoreporter freelance messicano che fino a ieri collaborava con Associated Press, è nei guai per aver falsificato una foto, scattata proprio durante il conflitto siriano. La foto in questione è stata scattata in settembre da Contreras, che ha immortalato un ribelle siriano accovacciato a terra con un fucile in mano. nell’angolo inferiore sinistro della foto originale, tuttavia, c’era anche una telecamera appoggiata a terra: un elemento che, secondo il fotografo, avrebbe disturbato la composizione dello scatto, distraendo il lettore. Così Contreras ha deciso di rimuovere digitalmente quella telecamera, lasciando l’angolo vuoto.

Un ulteriore problema etico riguarda l’estetizzazione delle fotografie di reportage. A questo punto devo citare Susan Sontag:

“L’arte trasforma per definizione, ma le fotografie che documentano eventi disastrose deprecabili vengono aspramente criticate se appaiono “estetiche”; vale a dire, troppo simili all’arte. Il duplice potere che ha la fotografia -di produrre documenti e di creare opere d’arte- ha dato origine a una serie di affermazioni estremistiche su ciò che i fotografi dovrebbero non dovrebbero fare. Negli ultimi tempi la più diffusa è quella che contrappone questi suoi due poteri. Le fotografie che raffigurano la sofferenza non dovrebbero essere belle, così come le didascalie non dovrebbero essere moraleggianti. In quest’ottica infatti, una bella fotografia sposta l’attenzione della gravità del soggetto rappresentato al medium in sé, compromettendo così il carattere documentativo dell’immagine. Una fotografia del genere invia segnali contraddittori. “Fermate tutto ciò” ingiunge. Ma al tempo stesso esclama: “Che spettacolo!”. […]”

Devo ancora ricordare, a mio parere in negativo, esempi come Pellegrin, che ha costruito a puri fini pseudo- documentaristici (pur arrivando secondo al WPP del 2013) la sua fotografia, per non parlare di Èric Baudelaire, che addirittura costruisce immagini di territori di guerra, come in un set cinematografico, raggiungendo l’apoteosi del falso.

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Estetizzare l’immagine, quindi, non dovrebbe significare modificarla per renderla appetibile al gusto dei media; bensì renderla fruibile, attraverso la propria interpretazione “artistica”, senza distorcere il contenuto vero della realtà, senza piegarla a puro strumento di propaganda o di piacere narcisistico-voyeuristico, cioè facendone un falso.
Una chiarificazione esemplare di quanto ho espresso sopra lo troviamo proprio in Salgado prima maniera, quando in un articolo descrive così le sue esperienze in un’Etiopia, piegata dal flagello della siccità e della fame:

“Quello che trovai era di là della mia immaginazione. Nel primo campo che visitai c’erano 80.000 persone. Stavano morendo di fame. Si vedevano i resti dei cadaveri, corpi di uomini e donne e molti, molti bambini. Ogni giorno morivano più di cento persone.
I primi giorni era impossibile fotografare questi campi a causa della situazione emotiva. Troppo sbalordito per scattare. Ma dopo qualche giorno smetti di piangere e qualche giorno dopo ancora capisci che hai un lavoro da fare. È un lavoro proprio come quello dei medici che sono venuti per curare i malati o gli ingegneri arrivati per costruire case.“

Le sue parole sono chiarissime e ci danno un’idea precisa di cosa voglia dire fare reportage in zone molto difficili. Tuttavia Salgado fu spesso criticato, anche dalla Sontag, in particolare Ingrid Sischy scrisse di lui:

“Salgado è troppo preso dagli aspetti compositivi delle sue immagini, dalla ricerca di “Grazia” e “bellezza” nelle forme aberranti dei suoi soggetti sofferenti. Da questo impedimento della tragedia ne derivano delle immagini che rinforzano decisamente la nostra passività rispetto all’esperienza che rivelano. Estetizzare la tragedia è il modo più rapido per anestetizzare i sentimenti di coloro che ne sono testimoni. La bellezza è un richiamo all’ammirazione, non all’azione.”

Queste righe, tuttavia, non inficiano il lavoro dell’autore, ma, a mio parere, rendono ancora più forte la sua opera, spronano il fruitore a superare il lato estetico e a percepirne, valorizzato, il messaggio forte che sta dietro un’apparente estetizzazione. Devo tuttavia ammettere, avendo osservato le foto dell’ultima fatica di Salgado, “La Nuova Genesi”, che qui indulge molto sulla estetizzazione e cura, direi maniacale, dell’immagine, però qui egli non vuole mostrarci le miserie di un popolo che soffre, ma le meravigli di un mondo che vive.

ETICA DEL QUANDO

Per “etica del quando” mi riferisco all’analisi della ripresa in quanto momento documentato: già Baudleaire intorno al 1860 scriveva:

“È impossibile scorrere un giornale qualsiasi, non importa di che giorno, o mese, o anno, senza trovarci ad ogni riga i segni della più spaventosa perversità umana […]. Ogni giornale, dalla prima all’ultima riga, è un tessuto di orrori. Guerre, crimini, stupri, impudicizia, torture, delitti dei principi, delitti delle nazioni, dei diritti dei singoli; un’ubriacatura universale di atrocità. Ed è con questo nauseante aperitivo che l’uomo civilizzato accompagna la sua colazione ogni mattina.”

Da queste considerazioni Susan Sontag, ne trae che:

“Tale idea presume che tutti siano spettatori. Implica, in modo perverso è poco serio, che al mondo non ci sia reale sofferenza.”

Sempre a proposito di “etica del quando”, vi sottopongo questo estratto da un saggio su etica e fotogiornalismo di Scianna:

“Ma c’è un’altra storia, che mi ha raccontato il fotografo Mare Riboud, in cui le cose hanno avuto un ben più in-quietante sviluppo.Mare era in Bangladesh con altri fotografi nel pieno dei disordini rivoluzionari del 1971. A un certo punto si trovarono in mezzo ad alcuni soldati indiani che avevano occupato il paese, i quali avevano arrestato e stavano portando via alcuni aguzzini del regime precedente. C’era intorno a questi soldati una piccola folla che urlava contro gli arrestati, come sempre le folle urlano in tutte le piazze Loreto della storia e del mondo contro quelli che osannavano il giorno prima, pur odiandoli. Mare a un certo punto si rese conto che siccome c’erano i fotografi che fotografavano la scena gli stessi soldati erano entrati nella parte dei giustizieri e cominciavano a picchiare ferocemente quei due disgraziati. La cosa sgomentò Mare che partì di corsa a cercare un colonnello con il quale era entrato in contatto per andargli a dire che i suoi soldati stavano linciando delle persone. Non lo trovò, tornò indietro di corsa ma quei due disgraziati erano già stati massacrati.
I due fotografi Horst Faas e Michel Laurent, che erano rimasti hanno avuto il premio Pulitzer 1972 per le fotografie di quel linciaggio. Uno dei due, tra l’altro, sarebbe morto poco tempo dopo in Cambogia. C’è da aggiungere un dettaglio che aumenta l’ambiguità di tutta la faccenda. Indira Gandhi, allora primo ministro dell’India, avendo visto quelle foto sulla stampa americana emanò ordini rigorosissimi al fine di evitare che si ripetessero episodi simili. Quelle immagini, quindi, che mostravano un linciaggio probabilmente favorito, se non determinato dalla presenza dei fotografi, hanno contribuito forse a salvare la vita ad altre persone. Forse. Però io considero Mare un fotografo e una persona rispettabile e non mi piace affatto che abbiano avuto il premio Pulitzer fotografi che hanno assistito, partecipando, sia pure non volontariamente a quel linciaggio che, in un modo o in un altro, hanno finito col favorire.”

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Personalmente sono portato a pensare che quei soldati avrebbero comunque massacrato quelle povere vittime, anche se i giornalisti non fossero stati presenti, se non altro per scoraggiare gli astanti ad acuire la protesta. Così tutto sarebbe caduto nell’oblio. Al contrario, rimango fermo nell’opinione che proprio la documentazione di quel sopruso abbia contribuito a salvare altre vite umane e che i reporter non abbiano certamente agito in funzione del premio Pulitzer, tenuto conto che hanno messo a repentaglio la loro vita, e che uno dei due morirà in seguito sul campo. Al contrario sono certo che abbiano svolto fino in fondo il loro dovere di fotogiornalisti: vedere, registrare e mostrare.

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