HIROSHI SUGIMOTO TRA ZEN E CONCETTUALE
Hiroshi Sugimoto è uno dei maggiori fotografi giapponesi viventi.
Nasce a Tokyo nel 1948 e dopo una laurea in economia politica, nel 1970 si trasferisce negli USA a Los Angeles, dove si iscrive al “Art Center College of Design” e dal 1974, ha base a New York, ma spesso torna nel suo Giappone.
Culturalmente parlando, quindi, Hiroshi ha assorbito moltissimo la cultura occidentale, ma non ha dimenticato le sue radici ben affondate nella filosofia Zen del suo paese natale.
La produzione artistica di questo autore è tutta rivolta al BN, ripreso su pellicola con banco ottico ed è sicuramente caratterizzata da una genialità e da un’originalità non comuni: basti pensare alla sua serie “Theaters”, le cui fotografie sono state eseguite riprendendo lo schermo di vari cinematografi e drive-in durante tutta la durata della proiezione, con un colpo finale di flash per illuminare anche l’ambiente.
Con questo escamotage, Sugimoto, vuole rilevare il concetto Zen di vuoto.
Qui vi mostro un esempio:
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Pertanto, per comprendere al meglio la filosofia che è alla base della sua produzione artistica, occorre approfondire le nostre conoscenze sul concetto di “Nulla assoluto” nello Zen; a tale proposito vi riporto il brano tratto da “VARI ASPETTI DEL NULLA ASSOLUTO NELLE FILOSOFIE DI NISHIDA E TANABE” di Kosaka Kunitsugu (a cura di Matteo Cestari) e pubblicato sulla Rivista Internazionale di studi afroasiatici n. 7-11 – gennaio 2010:
“Nel periodo Bunkyū (1861-1864), erano già̀ passati ben più di cento anni da quando la filosofia era stata accolta in Giappone per la prima volta per merito dei due precursori Nishi Amane e Tsuda Mamichi. In quel periodo, la filosofia giapponese aveva superato la fase di semplice presentazione, traduzione e commento del pensiero occidentale degli inizi e in un modo o nell’altro era giunta ad avere la propria fisionomia.
Dato che la data di pubblicazione del libro di Nishida Kitarō Uno studio sul Bene (Zen no kenkyū 善の研究), che si dovrebbe considerare la “dichiarazione d’indipendenza” della filosofia giapponese, è del 1911 (Meiji 44), significa che dalla prima introduzione all’indipendenza fu necessario grossomodo mezzo secolo.
Oggi noi abbiamo varie filosofie originali che sono universalmente chiamate con nomi propri, come “filosofia di Nishida”, “filosofia di Tanabe”, “filosofia di Takahashi”. Tutte queste filosofie possiedono una forte personalità̀ e si sono confrontate fra loro con vigore; ma allo stesso tempo in esse si possono riconoscere anche molti elementi comuni, riconducibili a un “modello giapponese” [di pensiero]. Per esempio, condividono tutte un’inclinazione assai pronunciata per la filosofia della religione e un profondissimo interesse per la logica dialettica o la metodologia del pensiero.
In primo luogo, a riguardo dell’orientamento verso la filosofia della religione, è un fatto risaputo che il pensiero di Nishida sia fondato sull’esperienza zen del filosofo che praticò meditazione per più di dieci anni, come pure che il suo scritto postumo sia stato “La logica del luogo e la visione religiosa del mondo”.
Inoltre, è anche ben noto che la filosofia di Tanabe che inizialmente mostrava un forte interesse per la logica e l’etica, a partire dal saggio Filosofia come metanoetica (1946) scritto attorno alla fine della seconda guerra mondiale, abbia rapidamente rafforzato il suo orientamento verso la filosofia della religione. E ancora, Takahashi, che all’inizio aveva come obiettivo una “filosofia come pura logica”, nel periodo della maturità̀ arrivò a sviluppare un pensiero de “l’amore totale circum-scendente” (hōetsuteki issai ai 包越的一切愛). Fondamentalmente, la filosofia di Takahashi è una filosofia dell’emotività̀ (emotionalism) e intende la totalità̀ onnicomprensiva, che è la totalità̀ che accoglie ogni cosa, come amore e poiché́ è una filosofia che parla dell’assorbimento di tutte le cose in questa totalità̀ onnicomprensiva, si può̀ intendere come una forma di “quietismo” (quietism) o un “contemplativismo” (contemplationism).
Di conseguenza, in conformità a questo carattere si può̀ considerare tale filosofia come veramente religioso-filosofica. Inoltre, parlando della dialettica, il loro interesse per tale argomento proveniva per tutti dai loro studi su Hegel. In questo senso, si deve dire che nello sviluppo della filosofia giapponese contemporanea, la filosofia hegeliana abbia svolto un ruolo di primaria importanza.
Sia Nishida, che Tanabe, come anche Takahashi, hanno imparato moltissimo da Hegel e in particolare hanno sviluppato la loro filosofia nel confronto con la sua dialettica. A questo proposito, nella loro critica a Hegel sostenevano tutti che la dialettica di Hegel, era ancora incompleta.
Essi considerarono problematico il fondamento stesso della formazione della dialettica hegeliana e l’hanno criticata. Come si dirà̀ in seguito, la “Logica del Luogo” (basho no ronri 場所の論理) di Nishida non è altro che una dialettica locativa, elaborata come fondamento per il completamento della dialettica processuale di Hegel. Inoltre, la “Logica della Specie” (shu no ronri 種の論理) o la “Logica della Mediazione Assoluta” (zettai baikai no ronri 絶対媒介の論理) di Tanabe sono logiche in cui si radicalizza la dialettica in conformità a una critica a quella hegeliana intesa come “emanazionismo” (Emanatische Logik). Inoltre, Takahashi a partire dalla sua “posizione della totalità̀”, ha concepito una filosofia che superando tutte le [forme di] dialettica le comprenda e ha indicato tale posizione nel senso di una “dialettica avvolgente” (hōbenshōhō 包弁証法).
Fino a qui, ho presentato gli elementi della filosofia della religione e della dialettica come aspetti comuni delle filosofie di Nishida, Tanabe e Takahashi, che sono rappresentative del [pensiero del] Giappone contemporaneo. A questo proposito, ciò̀ che lega insieme questi due aspetti, oppure ciò̀ che si trova al fondamento di entrambi, è il concetto del cosiddetto “Nulla Assoluto” (zettai mu 絶対無). Come è noto, tanto Nishida, che Tanabe e Takahashi hanno posto il “Nulla Assoluto” a fondamento della loro filosofia. Tradizionalmente, i filosofi dell’Occidente pongono alla base di ogni esistenza, o come elemento trascendente ogni esistenza, un “Essere Assoluto” (zettai u 絶対有) oppure “l’Ente Assoluto” (zettaisha 絶対者); contrariamente a ciò̀, i filosofi giapponesi contemporanei pongono al fondamento, alla base di ogni esistenza un “Nulla Assoluto”. In questo senso, se si considera la filosofia tradizionale dell’Occidente come “filosofia dell’Essere Assoluto”, la filosofia del Giappone contemporaneo si può̀ definire come “filosofia del Nulla Assoluto”.
Di conseguenza, in ciò̀ si potrebbe riconoscere un contrasto fra visioni della realtà̀ che potrebbe anche essere definito come un confronto fra “logica dell’Essere” e “logica del Nulla”…
…In ogni caso, tra le filosofie di Nishida, Tanabe e Takahashi, si può̀ affermare che il concetto di Nulla Assoluto di Takahashi abbia il tratto sostanzialistico più pronunciato, mentre Tanabe ha il tratto di attività̀ più marcato. Inoltre, chi ha usato il termine “Nulla Assoluto” il numero maggiore di volte e con maggiore coerenza è stato Tanabe.
In precedenza, ho detto che Takahashi, più che “Nulla Assoluto”, ha usato molto l’espressione “Totalità circum-scendente”, e anche Nishida alla fine della vita ha usato spesso la predicazione “Uno Assoluto”.
Naturalmente, l’Uno Assoluto e il Nulla Assoluto non sono diversi, ma ci sarà̀ pure una ragione per cui egli ha cominciato a usare il termine “Uno Assoluto” in parallelo con il concetto abituale di “Nulla Assoluto”.
Questo ha forse a che vedere con il fatto che nel suo saggio “Sull’autoconsapevolezza” (giugno 1933) ha definito la propria posizione come una “posizione del Nulla Assoluto-eppure- Essere Assoluto”, e inoltre né “La logica del luogo e la visione religiosa del mondo” (postumo), al posto di Nulla Assoluto, ha usato molte volte il termine “Ente Assoluto”. Dal mio punto di vista, ciò̀ si può̀ forse interpretare come una manifestazione del fatto che, poiché́ fino ad allora Nishida aveva promosso una logica del “Nulla” orientale, contro la logica “dell’Essere” dell’Occidente, facendo un ulteriore passo in avanti, aveva in mente di combinare e assumere entrambe le logiche.
Nishida nello stesso saggio parla di “livello ordinario escatologico” (shūmatsuronteki heijōtei 終末論的平常底), combinando insieme termini cristiani e buddhisti zen. Viene da pensare che anche l’uso frequente di queste strane espressioni siano indice di un’intenzione d’identità̀.”.
Da quanto sopra ne derivano due concetti fondamentali per interpretare la fotografia di Sugimoto:
1) – il concetto di “Contemplazione” come assorbimento di tutte le sensazioni che ci provengono dalle cose intorno a noi;
2) – il concetto di “Nulla assoluto”, che si contrappone al nostro “Dio” o “Essere assoluto” come entità escatologica.
Hiroshi per meglio identificarsi con il nulla zen e per massimizzare le capacità contemplative e creative, ha dichiarato anche di aver fatto uso di allucinogeni:
“Ho ingerito una sostanza allucinogena e poi tutto a un tratto questo piccolo pezzo di materia, che è entrato nel mio corpo, mi ha cambiato la vista e l’udito e la memoria. Poi ho perso il senso del tempo. Non riesco a descrivere a nessuno questa esperienza.”.
Successivamente si è reso conto che l’utilizzo di mezzi artificiali è una pratica pleonastica ai fini di stimolare la creatività e lo stato meditativo e, senza fatica, li ha abbandonati.
Venendo alla nostra fotografia in commento, che fa parte della serie “Seaside”, egli concepì questo lavoro, che tradurrei semplicemente con: “Paesaggio marino”, come un modo per evocare la nascita della consapevolezza umana.
Proprio riferendosi a questo lavoro egli ci propone una sua visione della contemplazione come filo conduttore nell’analisi dello stesso:
“Potete osservare il ritratto di giovane donna di Petrus Christus con molta calma, a poco a poco, e studiarne i dettagli per un’ora o anche due.
In questo modo potete discernere tutti i dettagli del suo viso.
Cosa impossibile quando si è di fronte a una signora giovane in carne e ossa…
…La funzione della fotografia è la stessa.
Ti costringe a fermarti e a studiare qualcosa con minuziosa attenzione.
Essa blocca il mondo e lo tiene lì, immobile, aperto alla vostra ricerca e studio.
Volendo studiare il mondo, occorre fermarlo.
È lo stesso procedimento, come se fossi uno scienziato che studia un insetto.
Devi uccidere e poi sederti e iniziare a esaminarlo.
Lo stesso metodo è utilizzato dal fotografo.
Si utilizza un campione per capire il tutto: il mondo intero”.
Ed ecco l’immagine, o meglio le immagini, che ci accingiamo ad analizzare:
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Ora, io capisco che la prima espressione che vi viene in mente è quella famosa frase di Fantozzi di commento al film “La corazzata Potëmkin”, ma calma e sangue freddo!
In questo lavoro si entra nel sottile gioco tra gli opposti, tra il silenzio e il tempo.
In ogni fotografia l’oscillazione tra il movimento e la stasi, la nitidezza e la nebbia, il dettaglio e la totalità, la trasparenza e l’opacità creano un clima di meditazione e di fluttuazione interiore, che l’artista identifica come “tempo di esposizione”.
Ricorriamo quindi a un’analisi di tipo iconopoietico, cioè di rapporto tra segno ed emozioni, seguendo sia i suggerimenti dell’autore, che gli stimoli del nostro subconscio.
Passiamo da un confine netto tra mare e cielo, a uno sfumato, impreciso e ricco d’incognite; da un mare che porta con sé informazioni date dall’increspatura dell’acqua accarezzata dal vento, a una superficie senza informazioni e senza limiti. Passiamo da una sensazione netta di una temporalità definita, a una sospensione dello spazio-tempo, a un oltre che potremmo definire escatologico e apportatore di angosciose malinconie.
Lo spazio è uguale: mare e cielo, ma le valenze sono differenti.
Per meglio compenetrare queste emozioni cito ancora le parole che Sugimoto ha utilizzato per descrivere queste fotografie:
“Ero quasi addormentato quando ho avuto una visione estremamente nitida: l’idea di un orizzonte molto netto, di un paesaggio marino completamente immobile, con un cielo luminoso e senza nuvole. L’orizzonte era nel centro dell’immagine.
Questa visione ha le sue radici nella memoria della mia infanzia: ricordo la prima volta che ho visto il mare. Sono nato a Tokyo che, come sapete, è situata vicino al mare. Tuttavia in realtà ogni giapponese è ansioso di vedere il monte Fuji, ma io, al contrario, sono sempre stato attratto dall’oceano.
Mi piaceva questa immagine e ho iniziato a pensare a una nuova serie.
Pensai ai miei antenati che per la prima volta hanno guardato il mare e gli hanno assegnato il nome. Per attribuire il nome a qualcosa occorre essere consapevoli di sé, essere in grado di distinguere se stessi dal mondo.
Il linguaggio deriva da questo bisogno umano di comunicare con il mondo. Senza linguaggio il confine tra il mondo interiore e quello esteriore non esisterebbe.
Mentre scattavo queste fotografie, cercavo di immaginarmi le emozioni più ataviche degli esseri umani, di quando i primi hanno scelto i nomi da dare alle cose del mondo: al mare…
…Voglio che la gente osservi il mio lavoro due volte: da lontano e da molto vicino.
Nella fotografia di grande formato si vede facilmente la grana.
L’acqua per esempio si presenta come un agglomerato di punti, e questo diviene evidente, dove finisce l’immagine. Tutto è disegnato da puntini.
Con il formato che uso, le persone possono avvicinarsi molto e osservare le onde senza notare la grana. Voglio che chi osservi si proietti nelle mie immagini.”
Quindi da lontano abbiamo due mondi: quello del cielo, che si proietta oltre lo spazio topologico e quello del mare la cui texture ci narra ora del vento, collegato all’infinito del cielo, ora della calma, di un continuo tra cielo e mare tra trascendente e palpabile..
Avvicinandoci entriamo in un’altra dimensione, quella della grana, del creatore, dell’Essere Supremo, per noi occidentali, ma per la cultura Zen del Nulla Assoluto, dell’annichilimento e dell’uniformazione.
Emozioni e paure ataviche si muovono nella mente, simbolismi primordiali e misterici attraversano il nostro pensiero, il tutto evocato da un’immagine di una semplicità sconcertante e di un’estetica sorprendentemente elementare.
In queste fotografie troviamo mondi in conflitto di senso.
Per noi occidentali queste sensazioni sono da ricercare attraverso un’acquisizione culturale, una presa d’atto di una profonda diversità di pensiero.
Noi non siamo avvezzi a una filosofia della meditazione, alla razionalizzazione del nulla.
I giapponesi, al contrario, vivono con intensità le emozioni che la cultura zen propone e non fanno certo fatica a percepirne anche le più deboli sfumature.
Tuttavia la conoscenza ci avvicina, sforzandoci di penetrare il loro pensiero troviamo anche noi quei significati e quelle impressioni che, in una lettura superficiale e priva di nozioni, non sarebbero mai esperite.
Ecco che allora le fotografie di Sugimoto non sono più banali, la linea dell’orizzonte non è qualcosa di fisico. Essa diviene il confine tra il nulla e l’esistenza. L’esistenza è il mare, l’Essere, la consapevolezza di esistere ed ecco che in esso troviamo dei segni da decifrare, anche nella seconda immagine, dove tutto sembra confuso, etereo.
L’esistenza ha una sua peculiarità, non è piatta e afinalistica come il cielo; produce una consistenza, conserva una sua matericità, diviene uno stimolo tattile, cioè il mare siamo noi, qui e oggi.
Il cielo non ci regala informazioni: è desolatamente piatto, bianco, senza nuvole.
Nella cultura Zen assume il ruolo del “Nulla Assoluto”; noi potremmo accostarlo all’infinito dell’’Essere Supremo”, seguendo i nostri parametri culturali.
Come tale non lo conosciamo, non abbiamo informazioni, non sappiamo nulla.
Immaginiamo che trascenda lo spazio fisico del fotogramma, che non abbia un confine e che la linea dell’orizzonte, più che un suo limite, sia il confine della nostra vita, della nostra capacità di conoscere e di interpretare.
Nella prima immagine questa transizione è netta, nella seconda sfumata, così come a volte il confine tra spazio e tempo, tra reale e surreale, tra vita e trascendente si presentano ben distinti.
Nella seconda si embricano, sfumano, si confondono e ci confondono, così come avviene nel mondo onirico. Sì perché l’uomo è realtà e sogno. Il sogno non ha confini netti e tante volte il paradosso si fa realtà.
Nel sogno il trascendente non trova un confine efficace, tutto si confonde: sentimenti, emozioni, sensazioni, illusioni tutto è embricato, tutto è realtà, ma nulla è vero. Anche i sentimenti sfuggono alle regole e come in Alice nel paese delle meraviglie anche l’impossibile diviene possibile e Hiroshi ci porge tutto ciò attraverso una fotografia lineare, “quasi” banale.
Come avete letto da queste fotografie escono pensieri, suggestioni ed esperienze profonde e di grande spessore, sicuramente inaspettate e tutt’altro che banali.
Spesso la genialità dell’intuizione elementare, racchiude la complessità di universi sconosciuti.